Rassegna giurisprudenziale

Corte Costituzionale

In questa pagina riportiamo una selezione di alcune tra le più significative pronunce della Corte Costituzionale aventi ad oggetto i diritti dei minori e il processo penale minorile.

Le pronunce e le relative massime, suddivise per materia, sono consultabili e scaricabili in formato PDF, mediante link ipertestuali che reindirizzano al sito ufficiale della Corte Costituzionale.

Sono inoltre pubblicati abstract riassuntivi di ciascuna decisione.

 

 

ADOZIONE IN CASI PARTICOLARI

Sentenza n. 79 del 2022                                                              Massime nn. 44631 – 44632 - 44633 - 44634

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante.

Il Giudice delle leggi rileva che la tutela dell’interesse del minore impone di garantire a tutti i bambini adottati il riconoscimento dei rapporti di parentela che nascono dall’adozione. Il minore adottato - nelle ipotesi conosciute come “adozione in casi particolari” - ha lo status di figlio e non può essere privato dei legami parentali, che il legislatore della riforma della filiazione «ha voluto garantire a tutti i figli a parità di condizioni, perché tutti i minori possano crescere in un ambiente solido e protetto da vincoli familiari, a partire da quelli più vicini, con i fratelli e con i nonni». Non riconoscere i legami familiari con i parenti del genitore adottivo equivale a disconoscere l’identità del minore costituita dalla sua appartenenza alla nuova rete di relazioni familiari che di fatto costruiscono stabilmente il suo quotidiano.

Del resto, si ritiene che l’adozione in casi particolari di minori, istituto rilevante per la crescita e la stabilità del minore non possa essere regolato tramite il rinvio alla disciplina operante per l’adozione dei maggiorenni, istituto che è plasmato su esigenze prettamente patrimoniali e successorie.

 

 

ADOZIONE COPARENTALE

Sentenza n. 76 del 2016                                                              Massime nn. 38816 – 38817

Dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto il giudice a quo ha erroneamente ritenuto applicabile al caso oggetto del suo giudizio la disciplina in tema di riconoscimento delle sentenze di adozione internazionale di minori, riconducendone la fattispecie all'art. 36, comma 4, della legge n. 184 del 1983 (indicato dalla stesso comma 2) che estende il controllo giudiziale del Tribunale per i minorenni ad una particolare ipotesi di adozione di minori stranieri in stato di abbandono da parte di cittadini italiani. La fattispecie oggetto del giudizio a quo, invece, non è riconducibile all'ipotesi indicata poiché essa si applica ai soli cittadini italiani che, trasferendo fittiziamente la residenza all'estero mirano ad eludere la rigorosa disciplina nazionale in materia di adozione di minori in stato di abbandono, mentre nella fattispecie concreta la ricorrente nel giudizio a quo è cittadina italiana solo al momento della presentazione del ricorso, ma cittadina americana al momento dell'adozione.

 

 

ADOZIONE INTERNAZIONALE

Ordinanza n. 347 del 2005                                                         Massima n. 29747

Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 29-bis, introdotto dalla legge 31 dicembre 1998, n. 476, 31, secondo comma, 35, primo comma, 36, primo e secondo comma, e 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Cagliari,  nella parte in cui escludono la possibilità di ottenere la idoneità alla adozione internazionale, in casi particolari, alle persone singole e, quindi, di perfezionare la adozione internazionale in Italia, per violazione degli artt. 2, 3 e 30 della Costituzione.

 

 

COGNOME DEI FIGLI ED EGUAGLIANZA FRA I GENITORI

Sentenza n. 131 del 2022                 Massime nn. 44781  44782  44783  44784  44785  44786  44787  44788

1) Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;
3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che «l’adottato assume il cognome del marito», anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;
4) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome degli adottanti, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;
5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità degli artt. 237, 262 e 299 cod. civ., dell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e degli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
Attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma cod.civ. e delle norme sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio e al figlio adottato, la Corte afferma che nel cognome si radica l’identità giuridica e sociale della persona: “le conferisce identificabilità, nei rapporti di diritto pubblico, come di diritto privato e incarna la rappresentazione sintetica della personalità individuale”.
 Nella fattispecie delineata dall’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., “l’identità familiare del figlio, che preesiste all’attribuzione del cognome, può scomporsi in tre elementi: il legame  genitoriale con il padre, identificato da un cognome, rappresentativo del suo ramo familiare; il legame genitoriale con la madre, anche lei identificata da un cognome, parimenti rappresentativo del suo ramo familiare e la scelta dei genitori di effettuare contemporaneamente il riconoscimento del figlio, accogliendolo insieme in un nucleo familiare. La selezione, fra i dati preesistenti all’attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna, oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre”. Pertanto, nel rispetto dell’eguaglianza e della pari dignità dei genitori, il cognome del figlio deve comporsi dei cognomi di entrambi i genitori, nell’ordine dagli stessi deciso, fatta salva la possibilità, che di comune accordo, decidano di attribuire soltanto il cognome di uno dei due.

 

 

DIRITTO ALL’IDENTITÁ PERSONALE DELL’ADOTTATO

Sentenza n. 278 del 2013                                                            Massima n. 37469

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.

 

Sentenza n. 425 del 2005                                                            Massima n. 29957

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo modificato dall'art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà da parte della madre biologica di non essere nominata. La norma impugnata, che mira a tutelare la gestante che abbia deciso di non tenere con sé il bambino, non prevede per la tutela dell’anonimato della madre nessun tipo di limitazione, in quanto intende, da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali e, dall’altro, distogliere la donna da decisioni irreparabili. La norma, perseguendo tale duplice finalità, è espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti coinvolti nella vicenda e non si pone in contrasto con gli artt. 2 e 32 della Costituzione. Non sussiste neppure la violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell’irragionevole disparità fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione al riguardo: la diversità di disciplina non è, infatti, ingiustificata, dal momento che solo la prima ipotesi, e non anche la seconda, è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre al rispetto della sua volontà di anonimato.

 

 

FECONDAZIONE ETEROLOGA E STATUS DI FIGLIO

Sentenza n. 32 del 2021                                                                       Massime nn.  43580 – 43581- 43582 – 43583 - 43621 

Sono dichiarate inammissibili, perché protese a colmare un vuoto di tutela in una materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore, le questioni di legittimità costituzionale - sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo e agli artt. 8 e 14 CEDU - degli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004 e 250 cod. civ., che non consentono al nato nell'ambito di un progetto di procreazione medicalmente assistita (PMA) eterologa, praticata da una coppia dello stesso sesso, l'attribuzione dello status di figlio riconosciuto anche dalla madre intenzionale che abbia prestato il consenso alla pratica fecondativa, ove non vi siano le condizioni per procedere all'adozione nei casi particolari e sia accertato giudizialmente l'interesse del minore. La recisione, nel caso di specie, del legame tra la madre biologica e la madre intenzionale, pur in presenza di un rapporto di filiazione effettivo tra questa e il minore, ha reso evidente un vuoto di tutela dell'ordinamento nel garantire tutela ai minori e ai loro migliori interessi.

 

Sentenza n. 162 del 2014                                                              Massime nn. 37993 - 37994 - 37995 - 37996 - 37997      

Dichiara l’illegittimità costituzionale:

  1. dell’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui stabilisce per la coppia di cui all’art. 5, comma 1, della medesima legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili;
  2. dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3»;
  3. dell’art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3»;
  4. dell’art. 12, comma 1, della legge n. 40 del 2004, nei limiti in motivazione.

Con riguardo alle possibilità di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, la Corte afferma che la scelta di una coppia di diventare genitori e di formare una famiglia, che abbia anche dei figli, costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare. Conseguentemente, le limitazioni di tale libertà, ed in particolare un divieto assoluto imposto al suo esercizio, devono essere ragionevolmente e congruamente giustificate dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango (sentenza n. 332 del 2000). La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali.

Nondimeno, il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione. La considerazione che quest’ultimo mira prevalentemente a garantire una famiglia ai minori (come affermato da questa Corte sin dalla sentenza n. 11 del 1981) rende, comunque, evidente che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa.

 

 

MATERNITÁ SURROGATA E RAPPORTO DI FILIAZIONE

Sentenza n. 33 del 2021                                                            Massime nn. 43633 – 43634 – 43635 - 43633

Considerato che gli interessi del bambino possono essere bilanciati con la finalità legittima di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, vietata dalla legislazione statale, la Corte dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell’art. 18 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – dalla Corte di cassazione, sezione prima civile.

 

 

RESPONSABILITÁ GENITORIALE

Sentenza n. 1 del 2002                                                              Massime nn. 26736-26737-26738-26739-26740- 26741

  1. a) Dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 136 del Codice di procedura Civile, e del combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 741 del codice di procedura civile sollevate dalla Corte d’appello di Torino, sezione per i minori, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 24, secondo comma, 97, primo comma, e 111, secondo e sesto comma, della Costituzione, nella parte in cui, nel diritto vivente tali norme prevedono la comunicazione del decreto assunto dal tribunale per i minorenni nei procedimenti camerali ablativi o modificativi della potestà genitoriale con la forma abbreviata del biglietto di cancelleria, anziché la notificazione mediante consegna al destinatario di copia per esteso conforme all’originale del decreto nelle forme dell’art. 137 del codice di procedura civile;
  2. b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 336, secondo comma, del codice civile, sollevate dalla Corte d’appello di Torino, sezione per i minorenni, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 30, primo comma, 31, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevederebbe che nei procedimenti camerali ablativi o modificativi della potestà genitoriale sia sentito anche il genitore contro cui il provvedimento non è richiesto;
  3. c)  dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, secondo comma, 24, secondo comma, 30, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevederebbe, a pena di nullità rilevabile d’ufficio che i genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano sentiti;
  4. d) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 336, terzo comma, del codice civile, sollevate dalla Corte d’appello di Torino, sezione per i minorenni, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 111, primo e secondo comma, della Costituzione nella parte in cui non prevederebbe a pena di nullità che il provvedimento temporaneo assunto in caso di urgente necessità nell’interesse del minore, senza l’audizione dei genitori e del minore che abbia compiuto gli anni dodici, debba avere una durata massima stabilita dalla legge;
  5. e) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 737, 738 e 739 del codice di procedura civile e 336 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Genova, sezione per i minorenni, in riferimento all’art. 111 della Costituzione nella parte in cui prevedono l’applicabilità del rito camerale, in caso di conflitto tra genitori non uniti in matrimonio sull’affidamento dei figli, o più in generale nei procedimenti di limitazione o ablazione della potestà dei genitori.

 

 

RICONOSCIMENTO DEL MINORE

Sentenza n. 83 del 2011                                                              Massime nn. 35481-35482

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione.

Nella motivazione della sentenza viene specificato che l’art 250 cc. stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostanze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adempimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infrasedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse.

Al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. Di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), ma se si prospettano situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.

 

 

COMPETENZA TRIBUNALE PER I MINORENNI

Sentenza n. 2 del 2022                                                                Massime nn. 44463 - 44464 - 44465  

Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 670 cod. proc. pen.,in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 25, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 5, par. 1, lett. a, e 4, CEDU, nella parte in cui non consente al giudice dell'esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i Minorenni. Il rimedio - auspicato dal giudice a quo - della dichiarazione di nullità della sentenza nel quadro di un incidente di esecuzione non solo non è costituzionalmente imposto, ma la sua introduzione risulterebbe foriera di gravi squilibri nel sistema della rilevazione delle nullità, imperniato attorno al principio di tassatività delle nullità ex art. 177 cod. proc. pen., esso stesso frutto di un delicato bilanciamento che coinvolge, tra l'altro, la necessità di tutelare in maniera effettiva i diritti processuali dell'imputato e l'esigenza di assicurare la capacità del processo medesimo di pervenire, entro un termine ragionevole, ad accertamenti in linea di principio definitivi, anche relativamente alla sussistenza di eventuali errores in procedendo nelle fasi e gradi precedenti; per cui la formazione della cosa giudicata preclude qualsiasi ulteriore rilevazione delle nullità, anche di quelle definite «assolute» e «insanabili». La pronuncia additiva auspicata dal rimettente finirebbe per introdurre nel sistema un'ipotesi del tutto anomala di nullità, resistente alla formazione del giudicato, e derogatoria rispetto alla regola implicita di chiusura del sistema. Il che spalancherebbe inevitabilmente la strada al riconoscimento di sempre nuove ipotesi di nullità "resistenti al giudicato", rischiando di pregiudicare gravemente l'interesse, di respiro costituzionale, all'efficiente, e ragionevolmente spedito, funzionamento della giustizia penale. (Precedenti: S. 317/2009 - mass. 34149; S. 224/1996).       

 

Ordinanza n. 105 del 1984                                                         Massima n. 14241          

Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 9 del R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404 “nella parte in cui sottrae alla competenza del Tribunale per i Minorenni i procedimenti penali a carico di minori coimputati con maggiorenni per concorso nello stesso reato".

 

Sentenza n. 222 del 1983                                        Massima n. 11416

Dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 9 del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404 (Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni), convertito con modificazioni nella legge 27 maggio 1935, n. 835, nella parte in cui sottrae alla competenza del tribunale per i minorenni i procedimenti penali a carico di minori coimputati con maggiorenni per concorso nello stesso reato.

 

 

ESECUZIONE DELLE PENE

Sentenza n. 231 del 2021                                                          Massima n. 44276

Dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, e 76 della Costituzione. In particolare non sono fondate le censure alle norme sui limiti massimi di pena previsti per consentire ai condannati minorenni di accedere alle misure di comunità dell’affidamento in prova ai servizi sociali e della detenzione domiciliare. Tali norme non introducono un automatismo contrastante con la funzione di reinserimento sociale del condannato, né comprimono le esigenze di individualizzazione del trattamento penitenziario minorile, derivanti dai principi costituzionali di protezione dell’infanzia e della gioventù e di finalizzazione rieducativa della pena.

 

Sentenza n. 18 del 2020                                                              Massima n. 41590

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47- quinquies, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri di figli affetti da disabilità grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

La Corte Costituzionale afferma che il limite di età dei dieci anni previsto dalla disposizione censurata dalla Corte di cassazione per l'accesso alla detenzione domiciliare speciale della condannata madre contrasta, quando si tratti di figlio gravemente disabile, con i principi di eguaglianza e di protezione e pieno sviluppo dei soggetti deboli, unitamente a quello di tutela della maternità, cioè del legame tra madre e figlio che non si esaurisce dopo le prime fasi di vita del bambino.

 

Sentenza n. 263 del 2019                                                            Massime nn. 40889-42719-42720

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103». Più specificamente la Corte ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, relativa all’applicazione nei confronti dei condannati minorenni e dei giovani adulti del meccanismo “ostativo” previsto dall’articolo 4-bis, commi 1 e 1-bis, dell’Ordinamento penitenziario, secondo cui i condannati per uno dei reati in esso indicati, che non collaborino con la giustizia, non possono accedere ai benefici penitenziari previsti per la generalità dei detenuti. Con riferimento ai condannati minorenni, questo meccanismo preclusivo è stato ritenuto in contrasto anzitutto con i principi della legge delega n. 103 del 2017, di riforma dell’ordinamento penitenziario, che imponeva di ampliare i criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e di eliminare qualsiasi automatismo nella concessione dei benefici penitenziari ai detenuti minorenni. In secondo luogo, la Corte – richiamando la propria costante giurisprudenza sulla finalità rieducativa della pena e sulle sue implicazioni nei confronti dei minori – ha ritenuto che la disposizione censurata contrasta con gli articoli 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, perché l’automatismo legislativo si basa su una presunzione assoluta di pericolosità, che si fonda soltanto sul titolo di reato commesso e impedisce alla magistratura di sorveglianza una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione, le quali devono presiedere all’esecuzione penale minorile. Il Giudice delle leggi ha sottolineato che «Dal superamento del meccanismo preclusivo che osta alla concessione delle misure extramurarie non deriva in ogni caso una generale fruibilità dei benefici, anche per i soggetti condannati per i reati elencati all’art. 4-bis ord. penit. Invero, al tribunale di sorveglianza compete la valutazione caso per caso dell’idoneità e della meritevolezza delle misure extramurarie, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo. Solo attraverso il necessario vaglio giudiziale è possibile tenere conto, ai fini dell’applicazione dei benefici penitenziari, delle ragioni della mancata collaborazione, delle condotte concretamente riparative e dei progressi compiuti nell’ambito del percorso riabilitativo, secondo quanto richiesto dagli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma Cost.».

 

Sentenza n. 174 del 2018                                                            Massime nn. 40169-40170

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge.

Il Giudice delle leggi sottolinea che subordinare il beneficio dell’assistenza esterna ai figli minori di 10 anni alla scelta di collaborare con la giustizia significa condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto tra madre e figlio in tenera età al “ravvedimento” della condannata. Come già affermato nella sentenza n. 239 del 2014, mentre è possibile condizionare alla collaborazione con la giustizia l’accesso a un beneficio, se quest’ultimo ha come scopo esclusivo la risocializzazione del detenuto, questa possibilità, invece, non sussiste se al centro della tutela c’è un interesse “esterno”, in particolare il peculiare interesse del figlio minore – costituzionalmente garantito – a un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o, in via subordinata, con il padre).

 

Sentenza n. 76 del 2017                                                     Massime nn. 39544-39545-39546-39547

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis».

La disposizione censurata, che impedisce in assoluto alle madri condannate per i delitti di cui sopra anche laddove si sia verificata la condizione della collaborazione con la giustizia, di espiare la frazione iniziale di pena detentiva secondo le modalità agevolate ivi previste (presso un istituto a custodia attenuata, o, ricorrendone le condizioni, nel domicilio o presso luoghi di cura, assistenza o accoglienza) introduce un automatismo preclusivo dell'accesso a un istituto, come la detenzione domiciliare speciale, primariamente volto alla salvaguardia del rapporto della madre condannata con il minore in tenera età. Lungi dal costituire bilanciamento di contrapposti interessi di rilievo costituzionale, tale preclusione assoluta - non consentendo al giudice di verificare la sussistenza in concreto, nelle singole situazioni, delle esigenze di difesa sociale, sottese alla necessaria espiazione della pena detentiva da parte delle madri di minori infradecenni, condannate per uno dei reati inclusi nell'elenco (complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità) dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario - pretermette e sacrifica totalmente l'interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile "normale" con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata.

 

Sentenza n. 350 del 2003                                                            Massima n. 28113

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare anche nei confronti della madre condannata, e, nei casi previsti dal comma 1, lettera b), del padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante.

La norma censurata, infatti, prevedendo, in contrasto con il principio di ragionevolezza, un sistema rigido che preclude al giudice, ai fini della concessione della detenzione domiciliare, di valutare – nel quadro del particolare ruolo della famiglia nella socializzazione del soggetto debole – l'esistenza delle condizioni necessarie per un'effettiva assistenza psico-fisica da parte della madre condannata nei confronti del figlio portatore di 'handicap', accertato come totalmente invalidante, determina un trattamento difforme rispetto a situazioni analoghe ed equiparabili tra loro: quella, cioè, della madre di un figlio incapace perché minore di anni dieci, ma con un certo margine di autonomia, almeno fisica, e quella della madre di un figlio disabile e incapace di provvedere da solo anche alle sue più elementari esigenze, il quale, a qualsiasi età, ha maggiore e continua necessità di essere assistito dalla madre rispetto a un bambino di età inferiore agli anni dieci. 

 

Sentenza n. 436 del 1999                                                   Massima n. 25027

Dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 58-quater, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui si riferisce ai minorenni.

Più specificamente il disposto dei commi 2 e 3 della disposizione impugnata stabilisce che al detenuto, al quale sia stata revocata una misura alternativa (affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà), non possono essere concessi, per un periodo di tre anni dalla emissione del provvedimento di revoca, l'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio, l'affidamento in prova "ordinario", la detenzione domiciliare e la semilibertà. 

La Corte ha più volte censurato l’applicazione indiscriminata anche ai detenuti minorenni, di norme dell'ordinamento penitenziario, o di altre leggi, che stabilivano specifiche preclusioni alla concessione di benefici penitenziari o di sanzioni alternative, in quanto, esse apparivano in contrasto con i principi costituzionali in tema di applicazione e di esecuzione delle pene e delle misure restrittive nei confronti dei minori, che, nelle situazioni prese in esame, esigevano una disciplina fondata su valutazioni flessibili e individualizzate circa la idoneità e la opportunità delle diverse misure a perseguire i fini di risocializzazione del condannato minore, nel rispetto delle specifiche caratteristiche della sua personalità.

Un divieto generalizzato e automatico, di durata triennale, di concessione di tutti i benefici penitenziari elencati, in conseguenza della revoca di una qualunque delle misure alternative dell'affidamento in prova, della detenzione domiciliare e della semilibertà, contrasta, pertanto, con il criterio, costituzionalmente vincolante, che esclude siffatti rigidi automatismi. Si reputa necessaria invece una valutazione individualizzata e caso per caso, in presenza delle condizioni generali costituenti i presupposti per l'applicazione della misura idonea a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all'esecuzione penale minorile.

 

Sentenza n. 450 del 1998                                                            Massima n. 24353

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-ter, comma 4, lettera c) della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nella parte in cui si riferisce ai minorenni. Considerato che, all'istituto del permesso premio è stata riconosciuta natura di misura premiale di incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria e di "strumento cruciale" di rieducazione - la rigida preclusione alla concessione di permessi premio, prima dell'espiazione di metà della pena, nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, introdotta nel quadro di un più generale e drastico inasprimento delle condizioni per la concessione a tali condannati dei benefici carcerari, è stata dettata dal legislatore in modo indiscriminato, senza riguardo alle specifiche esigenze, costituzionalmente imposte, dell'esecuzione minorile, risolvendosi in un automatismo incompatibile con la necessità' di valutazioni flessibili e individualizzate, in ordine all'impiego di un istituto inteso a consentire a condannati, che non risultino socialmente pericolosi, di "coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro" (art. 30-ter, comma 1) e, quindi, strumento essenziale per perseguire efficacemente il progressivo reinserimento della persona detenuta nella società e, dunque, quella finalità rieducativa, che deve essere assolutamente preminente nell'esecuzione penale minorile.

 

Sentenza n. 403 del 1997                                                       Massime nn. 23602-23603

 Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30-ter, comma 5, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione.

Dichiara, altresì, l’illegittimità costituzionale dell'art. 30-ter, comma 5, della legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella parte in cui si riferisce ai minorenni, considerato che è stato più volte sottolineato, come l'assoluta parificazione tra adulti e minori in materia di esecuzione delle pene nei confronti dei minori può confliggere con le esigenze di specifica individualizzazione e di flessibilità del trattamento del detenuto minorenne. Pertanto la disposizione impugnata compromette irrimediabilmente, in quanto applicata indifferenziatamente ai minori, le specifiche esigenze costituzionali che debbono informare il diritto penale minorile.

 

Sentenza n. 215 del 1990                                                            Massima n. 1560

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 47- ter, primo comma, n. 1, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), così come aggiunto dall'art. 13 della legge 10 ottobre 1986 n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la detenzione domiciliare, concedibile alla madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, possa essere concessa, nelle stesse condizioni, anche al padre detenuto, qualora la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

La manifesta incompatibilità di tale normativa nei confronti dell'art. 3 della Costituzione emerge particolarmente dal collegamento con i principi consacrati negli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione stessa. Più specificamente il riconoscimento dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, su cui si fonda il matrimonio, il riconoscimento dei diritti della famiglia (art. 29), il dovere e il diritto dei genitori di mantenere ed educare i figli con pari responsabilità, e soprattutto, le provvidenze che la legge deve disporre affinchè siano assolti i compiti dei genitori nei casi di loro incapacità (art. 30), la protezione che la Carta fondamentale accorda all'infanzia, sollecitando la Repubblica a favorire gli istituti necessari a tale scopo (art. 31), rappresentano un complesso di eminenti valori che rendono intollerabile la suddetta discriminazione.

 

 

PERDONO GIUDIZIALE

Sentenza n. 108 del 1973                                                            Massima n. 6768

 Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 169 del codice penale, nella parte in cui non consente che possa estendersi il perdono giudiziale ad altri reati che si legano col vincolo della continuazione a quelli per i quali é stato concesso il beneficio.

 

Sentenza n. 122 del 1966                                                            Massime nn. 16411-16412

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 14 e 15 del R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404 su "Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni" in riferimento al secondo comma dell'art. 24 della Costituzione, acclarato che il procedimento per la concessione del perdono giudiziale assicura il rispetto dei diritti di difesa.

 

 

PROCESSO PENALE

Sentenza n. 1 del 2015                                                                Massima n. 38213

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 458 del codice di procedura penale e dell’art. 1, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui prevedono che, nel processo minorile, nel caso di giudizio abbreviato richiesto dall’imputato in seguito a un decreto di giudizio immediato, la composizione dell’organo giudicante sia quella monocratica del giudice per le indagini preliminari e non quella collegiale prevista dall’art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario).

 

Sentenza n. 24 del 2013                                                              Massima n. 36920

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 32, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 31, secondo comma e 111, secondo comma, della Costituzione nella parte in cui - sulla base dell'interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità - esclude che, in caso di contumacia dell'imputato, il consenso alla definizione del processo nell'udienza preliminare possa essere validamente prestato dal difensore non munito di procura speciale. Quanto alla denunciata disparità di trattamento tra imputato presente e imputato contumace, in asserita violazione dell'art. 3 Cost., l'impossibilità per il secondo di ottenere già nell'udienza preliminare la concessione del perdono giudiziale o la dichiarazione di irrilevanza del fatto consegue ad una sua duplice, volontaria scelta, e cioè a quella di non presenziare a detta udienza e di non conferire al difensore una procura speciale che lo abiliti a prestare il consenso in sua assenza; scelta equivalente, agli effetti pratici, a quella di negare il consenso alla definizione anticipata del procedimento, la quale si limita, peraltro, a precludere l'adozione delle pronunce in questione nella fase dell'udienza preliminare. 

 

Sentenza n. 165 del 2012                                                            Massima n. 36447

Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 32, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), sollevata, in riferimento agli articoli 101, secondo comma, e 111, secondo e quinto comma, della Costituzione, nonché al «principio di ragionevolezza», dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Ancona con l’ordinanza indicata in epigrafe. L’articolo 32, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), stabilisce che, «se vi è richiesta del pubblico ministero», il giudice dell’udienza preliminare «pronuncia sentenza di condanna quando ritiene applicabile una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva», nel qual caso «la pena può essere diminuita fino alla metà rispetto al minimo edittale» Il giudice a quo si duole del fatto che la norma censurata lasci al «mero arbitrio» del pubblico ministero l’attivazione del meccanismo di definizione del processo minorile di cui si discute, ma non indica in modo chiaro e univoco quale sia la soluzione alternativa auspicata (ex plurimis, sulla inammissibilità della questione per oscurità o indeterminatezza del petitum, ordinanze n. 21 del 2011, n. 115 del 2009 e n. 54 del 2008).

 

Ordinanza n. 110 del 2004                                                         Massima n. 28421

Dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 1 e 2, del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come modificato dall'art. 22 della legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'articolo 111 della Costituzione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, 31, secondo comma, 27, terzo comma, e 111, quinto comma, della Costituzione, nella parte in cui precludono al giudice dell'udienza preliminare di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto, ovvero sentenza di condanna a pena pecuniaria o a sanzione sostitutiva, in mancanza di consenso dell'imputato. Invero, si rileva, che la ratio della norma di cui all’art. 32, comma 1, del DP.R. n. 448 del 1988 – quale ragionevole punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di favorire una rapida fuoriuscita dell'imputato minorenne dal circuito processuale, garantendogli nel contempo le più complete opportunità difensive connesse alla possibilità di ottenere in dibattimento una formula di proscioglimento più vantaggiosa – sia indubbiamente quella di riconoscere al minorenne la facoltà di non prestare il consenso alla pronuncia in udienza preliminare di sentenze che comunque presuppongono un accertamento di responsabilità.

 

Sentenza n. 149 del 2003                                                           Massime nn. 27724-27725

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, comma 4, del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui prevede che la sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto possa essere pronunciata solo nell’udienza preliminare, nel giudizio immediato e nel giudizio direttissimo.

 

Sentenza n. 195 del 2002                                                            Massima n. 27003

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 32, comma 1, del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come modificato dall'art. 22 della legge 1 marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione), nella parte in cui, in mancanza del consenso dell'imputato, preclude al giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere che non presuppone un accertamento di responsabilità.

Invero si evidenzia che  il potere riconosciuto all'imputato minorenne di non consentire alla definizione anticipata del processo nell'udienza preliminare comporta che il giudice, ove il consenso venga negato, o non venga prestato perché l'imputato è contumace o irreperibile, debba emettere decreto che dispone il giudizio anche nel caso in cui avrebbe altrimenti pronunciato una sentenza di non luogo a procedere nel merito con formula ampiamente liberatoria o, comunque, tale da non postulare alcun accertamento di responsabilità dell'imputato (ad esempio, per difetto di una condizione di procedibilità o per remissione di querela).

Ne emerge una disciplina intrinsecamente priva di ragionevolezza, che vanifica le finalità deflative che ispirano l'impianto dell'udienza preliminare minorile, precludendo la possibilità di una immediata definizione del processo e imponendo uno sviluppo dibattimentale assolutamente superfluo, non funzionale all'esercizio del diritto di difesa, posto che, tra l'altro, l'imputato non potrebbe comunque ottenere in dibattimento una formula di proscioglimento più vantaggiosa.

 

Sentenza n. 359 del 2000                                                            Massima n. 25625

Dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 2, lettera b, del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (esclusione del pericolo di fuga tra le condizioni previste per l'applicazione di misure coercitive nei confronti di soggetti minorenni).

 

Sentenza n. 433 del 1997                                                            Massima n. 23618       

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 10 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, in riferimento agli articoli 3 e 24, primo e secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede che " nel procedimento penale davanti al tribunale per i minorenni non é ammesso l'esercizio dell'azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato".

 

Sentenza n. 135 del 1995                                                       Massime nn. 21349-2135-21351

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 1, del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione (esclusione applicabilità patteggiamento nel procedimento minorile).

 

Sentenza n. 125 del 1995                                                            Massime nn. 21314-21315-21316

 Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 28, comma 4, del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui prevede che la sospensione non può essere disposta se l'imputato chiede il giudizio immediato.

 

Sentenza n. 77 del 1993                                                              Massime nn. 19315-19316

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 32, terzo comma, del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come sostituito dall'art.46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate), nella parte in cui non prevede che possa essere proposta opposizione avverso le sentenze di non luogo a procedere con le quali è stata comunque presupposta la responsabilità dell'imputato.

 

Sentenza n. 250 del 1991                                                      Massime nn. 17258 17259 17260 17261 176262 17263     

 Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 27 del testo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni approvato con D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448; dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 32, primo comma, del medesimo testo approvato col D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, come modificato dall'art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, limitatamente alle parole "o per irrilevanza del fatto a norma dell'art. 27"; dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 26 e 30, primo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272.

 

 

SOSPENSIONE DEL PROCESSO E MESSA ALLA PROVA

Sentenza n.139 del 2020                                                             Massima n. 43510

 Non è accolta l'eccezione di inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 28 del D.P.R. n. 448 del 1988. Queste ultime non sono ipotetiche o premature, essendo proprio la norma censurata a metterne in chiara luce la rilevanza attuale.

Nel caso di specie, la norma censurata, negando al GIP il potere di disporre la messa alla prova minorile, gli impedisce di acquisire il progetto di intervento funzionale alla prova stessa.

 

 

SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI ESECUZIONE

Sentenza n. 90 del 2017                                                              Massime nn. 39468 - 39469          

Si conferma, con questa pronuncia, l’orientamento della giurisprudenza costituzionale sulle finalità di recupero dell’imputato proprie della “giustizia minorile”.

La mancata sospensione dell’esecuzione della pena, ex art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., costituisce “la più grave forma di automatismo” poiché realizza la pretesa punitiva, senza considerare l’esigenza di recupero sociale del minore, demandandola alla successiva fase detentiva.

Per tali motivi, superate le eccezioni di inammissibilità e ritenuta la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, il Giudice delle leggi ha ritenuto fondata la questione evidenziando, tra l’altro, l’esigenza di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono.

Dunque, la rigida preclusione posta dall’art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p., laddove vieta la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis O.P. (legge 354/1975) e per altri delitti specificati, se applicata ai minori, contrasta con gli artt. 27 e 31 Cost.